sabato 22 maggio 2010

“GLI ANNI DI PIOMBO IN ITALIA: IL CINEMA DELL’EPOCA”

In che rapporto sta il cinema con la storia? In che modo un film pensato e girato in un determinato periodo storico può risentire dell’atmosfera storica di quel preciso momento? Nel caso del terrorismo negli anni di piombo in Italia in molti hanno detto il problema non era rilevante, ovvero che i film di quel periodo non erano riusciti ad affrontare il fenomeno in maniera creativa e esaustiva. In realtà ad una analisi più attenta si può provare a interrogare alcuni film e vedere in che modo alcuni importanti registi abbiano cercato di esprimere la crisi che in quegli anni attanagliava la società, scoprendo poi magari che quello che emerge dall’analisi dei film presi in esame può essere molto importante dal punto di vista della ricerca storica. Ovvero si può, mettendo in piedi un’analisi incrociata di alcuni film e del periodo storico preso in esame, verificare la fecondità dell’utilizzo del cinema come fonte storiografica. Il cinema, a grandi linee, come luogo di memoria, dove la memoria di un presente che si fa passato nel suo scorrere può fermarsi fra un’immagine e l’altra, e quindi depositarsi, stratificarsi. Il cinema come possibilità (virtuale) di far rivivere la memoria di quel presente sfuggente, come possibilità di prenderne possesso, di farla oggetto d’indagine e di ricerca. Per provare a capire, insomma, cosa significhino davvero gli anni Ottanta in relazione al terrorismo, e come possano aver inciso e continuare ad incidere sul nostro presente: quali le memorie e le cesure nella memoria.
Nella filmografia italiana sul ‘problema terrorismo’ si possono individuare, fra tutti i film reperibili, alcuni film che, anche solo ad una prima visione, lasciano negli occhi un qualcosa di simile l’uno con gli altri: film che non affrontano il problema di petto ma che lasciandolo magari quasi solo sullo sfondo, lo rendono uno dei protagonisti, e che in tal modo riflettono proprio anche sul controverso rapporto fra il cinema (di quegli anni) e la Storia (di quegli anni). I film sono: La tragedia di un uomo ridicolo (1981) di Bernardo Bertolucci, Tre fratelli (1980) di Francesco Rosi, Colpire al cuore (1982) di Gianni Amelio, Segreti segreti (1985) di Giuseppe Bertolucci.
Come si vede sono tutti film usciti all’inizio degli anni Ottanta, periodo durante il quale il terrorismo sembrava ormai sconfitto (o quasi) e si affacciava una nuova era, politica e sociale. E sono questi, del resto, i pochi titoli che in diversi segnalano come i più significativi sugli ‘anni di piombo’, senza però mai spiegare il motivo di questa loro presunta rilevanza. E’ indubbio che questi quattro film, rispetto a molti dei titoli di una ipotetica filmografia sul terrorismo italiano, appaiono da subito i più articolati e quindi anche i più problematici, perché sembrano mettere in discussione innanzitutto se stessi, la propria natura cinematografica ed estetica. Pur in maniera diversa, infatti, questi quattro sguardi sulla realtà italiana dei primi anni Ottanta nascondono anche riflessioni precise sulla loro natura; nascondono, cioè, un modo di interrogarsi sulla forma da dare al proprio sguardo, sulla prospettiva da assumere, il punto di vista da cui guardare.
Non è questo il luogo di proporre un’anali accurata di questi film, ma piuttosto quelli di interrogarli a partire da un punto di vista storico.
La ricerca storica tradizionale interroga il terrorismo fondamentalmente da due punti di vista: da una parte ne ricerca le radici storiche, scegliendo di analizzare in termini storiografici tutta la crisi sociale, culturale, politica ed economica che investe l’Italia negli anni ’70, per ricercarvi i fattori scatenanti la nascita delle organizzazioni terroriste. Dall’altro lato, nella forma della ricerca orale, si cerca, interrogando i terroristi stessi, di ricostruire le storie di vita dei militanti e di ricercare nella loro memoria altre ragioni ed un altro punto di vista sul fenomeno. Il grande cambiamento sociale, politico, economico e culturale che prende luogo in Italia a partire dai primi anni ’80, la svolta, cioè, del nuovo decennio, è da entrambi i metodi di ricerca visto come la risultante di altri fattori, che magari contribuiscono alla perdita di efficacia del terrorismo ma che non sembrano molto legati al terrorismo stesso.
Soffermandosi invece proprio sui film scelti emerge da subito un diverso modo di guardare al proprio tempo e alla società nella Storia. Tutti e quattro i film, incentrati in un modo o in un altro sul biennio ‘80-’81 (anni chiave per capire il decennio dei ’70 che si chiude e quello degli ’80 che si apre), significativamente si interrogano non tanto sulle ‘diverse’ ragioni del terrorismo, quanto piuttosto sull’impatto del terrorismo sulla realtà sociale e sulle coscienze individuali. I film scelti, cioè, mentre portano avanti un discorso indiretto sul modo di ricostruire sullo schermo la realtà del proprio tempo, mettono in scena una realtà che non è quella del terrorismo ma che risulta pur sempre percorsa ed invasa dal problema del terrorismo.
Partendo, appunto, da questo modo di porsi nei confronti della realtà, che trova un’eco diretto nella caratterizzazione dei rapporti fra personaggi e mondo e fra i personaggi stessi, è possibile, cercando di ancorarsi alla ricerca storica, ricostruire un modo di sentire tipico di quegli anni, una sensibilità diffusa, che trova il suo cuore centrale nella percezione del mondo (sensibile e sociale) come fosse un qualcosa di magmatico, confuso, non chiaramente definibile. E i film scelti propongono proprio il terrorismo come chiave di volta di questa deflagrazione che investe la comprensibilità della realtà: è l’impatto del terrorismo - un impatto in primo luogo mediatico (ovvero il terrorismo come notizia e il ruolo dei media nella costruzione della realtà) – a far perdere al mondo le sue coordinate, a smarrire attori e spettatori in una realtà indistinta e senza chiari punti di riferimento.
Se si guarda all’immaginario collettivo come luogo di interazione fra la vita interiore dell’individuo, la sua coscienza, e la vita collettiva, sociale, storica, come un qualcosa, cioè, che si fa e si forma a partire dalla vita interiore degli individui -, è possibile leggere in questa confusione interna al soggetto, in questa sua incapacità di capire il mondo che lo circonda, e quindi anche di capirsi, un momento forte nel processo, centrale in quegli anni, di ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato. E’ proprio a partire dal quello che emerge da questi film che si può ipotizzare che la perdita del senso storico, quell’impossibilità di capirsi in relazione al proprio tempo, abbia una rilevanza storica, come momento forte non solo nel rapporto del soggetto con se stesso, ma anche nel rapporto fra soggetto e società, fra l’io e gli altri. Dall’analisi dei film infatti, a questo proposito, emerge anche una rappresentazione dell’universo sociale e dei rapporti interpersonali che vede nel sospetto e nella finzione, nella menzogna (o in termini più figurativi nella maschera) la propria chiave di volta.
E’ anche grazie a questo ulteriore aspetto che, tornando a porre lo sguardo sulla ricerca storica, si capisce meglio in che modo i film scelti utilizzino il terrorismo per leggere la società di quegli anni e il cambiamento storico e sociale che stava avendo luogo: il cinema, cioè, sembra dirci che il terrorismo ha mandato in crisi la possibilità di trasmettere una memoria storica certa e definita, di trovare in questo passaggio di memorie un momento fondamentale nel rapporto fra generazioni diverse. E questo ha voluto dire mettere in discussione anche una coscienza storica che è in primo luogo capacità di capirsi come parte della Storia, immersi in un presente che nel suo scorrere si fa passato e diventa Storia. E’ in questo senso che tutti e quattro i film mettono in scena, in un’ambientazione figurativamente calata nel rapido cambiamento di stagione ed in un paesaggio autunnale, la fine di un mondo, ed un lento e misterioso scivolare verso un qualcosa percepito come altro, diverso. Insomma, i film scelti leggono questo passaggio epocale verso un altro mondo alla luce del terrorismo, presentandoci il terrorismo come un momento di catastrofe che conduce verso una diversa socialità ed un diverso senso storico individuale; come a dire che la svolta degli anni Ottanta è preparata soprattutto da questa disposizione profonda ad accettare la finzione e la soddisfazione personale come unica ancora di salvezza in un panorama indistinto di riferimento. Ed è qui, in breve, che sta la fecondità dell’utilizzo del cinema nella ricerca storiografica: esso ci permette di cambiare la prospettiva di sguardo sul quadro storico preso in esame, ci offre un punto di vista altro che rovescia l’analisi tradizionale e ci permette di vedere le cose sotto un’altra luce. Perché è guardando agli atteggiamenti mentali di chi vive la Storia che è possibile ricostruire ciò che gli storici chiamano ‘mentalità collettiva’, che non è un qualcosa di esterno che preesiste al soggetto e gli si sovrappone, quanto piuttosto un qualcosa che nasce proprio dal lavoro inconscio interno al soggetto, e che ‘riversato’ nel sociale torna ad abitare il soggetto stesso nelle vesti di ‘mentalità collettiva’.
STRUEGNU

venerdì 21 maggio 2010

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

Venerdì 12 dicembre 1969 alle 16.37 scoppiò una bomba all'interno della Banca Nazionale dell’ Agricoltura in piazza Fontana a Milano.
Rimasero brutalmente uccise sul colpo 14 persone, altre due morirono poco dopo e la diciassettesima vittima morì anni dopo in seguito alle lesioni riportate, i feriti furono 87.
Quello stesso giorno furono piazzate altre quattro bombe, tre scoppiarono a Roma (alla BNL, all'Altare della Patria e al Museo del Risorgimento), mentre la quarta, depositata nella Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala a Milano, non esplose. La bomba inesplosa venne subito fatta brillare, nonostante fosse considerata ormai innocua anche dagli artificieri, perdendo così preziosissime informazioni per le indagini.
LE INDAGINI NELL'AMBITO DELLA SINISTRA
La questura subito diresse le sue indagini verso la “pista rossa”. La sera stessa della strage il commissario Luigi Calabresi, conversando con il giornalista Giampaolo Pansa, si disse convinto che la responsabilità degli attentati era da attribuire ai gruppi dell'estrema sinistra. Il questore Marcello Guida subito asserì che la strage era da ricollegare a degli attentati compiuti il 25 aprile per i quali erano stati tratti in arresto alcuni anarchici. Il prefetto Mazza telegrafò al presidente del consiglio Mariano Rumor dicendo che l'ipotesi più attendibile da formularsi era quella anarcoide. Nei giorni successivi ci furono 244 fermi, 367 perquisizioni domiciliari e 81 irruzioni nelle sedi di gruppi e organizzazioni politiche. Il presidente della repubblica Saragat convocò le più alte cariche dell'ordine pubblico per valutare l'opportunità di proclamare lo “stato di pericolo pubblico”. Grazie al quale i prefetti avrebbero potuto ordinare l'arresto di qualsiasi persona e il Ministro dell'Interno avrebbe potuto revocare leggi vigenti.
Nelle ore immediatamente successive all'attentato fu arrestato Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, animatore del circolo culturale “Ponte della Ghisolfa”. Trattenuto illegalmente oltre le ore consentite dal fermo di polizia, interrogato senza sosta precipitò dal quarto piano dei locali della questura. La sentenza su come e perché Pinelli volò fuori dalla finestra del quarto piano è una delle pagine più nere della storia della “giustizia” italiana.
Ci furono molti punti oscuri nella conduzione delle indagini, incongruenze con le perizie dei medici legali, discordanze tra le versioni dei fatti fornite dagli agenti che parteciparono all'interrogatorio. Il 15 dicembre Pietro Valpreda, convocato al tribunale di Milano come testimone di un procedimento per offese al pontefice, venne arrestato e accusato della strage di piazza Fontana. Le accuse si basavano sulle rivelazioni di un finto anarchico, Mario Merlino (in realtà militante di Avanguardia Nazionale, infiltratosi nei movimenti di sinistra in seguito ad un istruttivo viaggio nella Grecia dei colonnelli con Pino Rauti e Stefano Delle Chiaie) e di un tassista: Cornelio Rolandi.
Rolandi, cambiando un paio di volte versione, raccontò la strana storia di un suo passeggero alto circa 1,73 con capelli non appariscenti e senza particolari inflessioni nel parlare, che da Piazza Beccaria (distante circa 135 metri dalla Banca dell'Agricoltura) prese il suo taxi fino in via Santa Tecla allontanandosi dalla banca, un atteggiamento davvero strano per uno che vorrebbe passare inosservato. Inoltre Valpreda non corrispondeva alla vaga descrizione del tassista, infatti era un capellone alto 1,66 e con una forte difetto di pronuncia, una erre “arrotata”. Rolandi in seguito a dei riconoscimenti poco ortodossi realizzati nella questura di Milano intascò i 50 milioni della taglia.

GSXR

STRAGE DI PIAZZA DELLA LOGGIA A BRESCIA

La Strage di Piazza della Loggia è stato un attentato terroristico compiuto da gruppi neofascisti il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale Piazza della Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre novantaquattro.

La prima istruttoria della magistratura portò alla condanna nel 1979 di alcuni esponenti dell'estrema destra bresciana. Uno di essi, Ermanno Buzzi, in carcere in attesa d'appello, fu strangolato il 13 aprile 1981 da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Nel giudizio di secondo grado, nel 1982, la condanne del giudizio di primo grado vennero commutate in assoluzioni, le quali a loro volta vennero confermate nel 1985 dalla Corte di Cassazione.

Un secondo filone di indagine, sorto nel 1984 a seguito delle rivelazioni di alcuni pentiti, mise sotto accusa altri rappresentanti della destra eversiva e si protrasse fino alla fine degli anni '80; gli imputati furono assolti in primo grado nel 1987, per insufficienza di prove, e prosciolti in appello nel 1989 con formula piena. La Cassazione, qualche mese dopo, confermerà l'esito processuale di secondo grado.

Nel corso dei vari procedimenti giudiziari relativi alla strage si è costantemente fatta largo l'ipotesi del coinvolgimento di rami dei servizi segreti e di apparati dello Stato nella vicenda.
Una ricostruzione siffatta appare sostenuta da una lunga serie di inquietanti circostanze: su tutte, basti pensare in primo luogo all'ordine - proveniente da ambienti istituzionali rimasti finora oscuri - impartito meno di due ore dopo la strage affinché una squadra di pompieri ripulisse con le autopompe il luogo dell'esplosione, spazzando via indizi, reperti e tracce di esplosivo prima che alcun magistrato o perito potesse effettuare alcun sopralluogo o rilievo; secondariamente, la misteriosa scomparsa dell'insieme di reperti prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri, anch'essi di fondamentale importanza ai fini dell'indagine; infine, va segnalata la recente perizia antropologica ordinata dalla Procura di Brescia su una fotografia di quel giorno che comproverebbe la presenza sul luogo della strage di Maurizio Tramonte, militante di Ordine Nuovo e collaboratore del SID.
Gli oscuri intralci di provenienza istituzionale manifestatisi anche durante il secondo troncone d'indagine verranno definiti dal giudice istruttore Zorzi quale ulteriore "riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell'esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo".

Una terza istruttoria è tuttora pendente presso la Procura di Brescia. Il 19 maggio 2005 la Corte di Cassazione ha confermato la richiesta di arresto per Delfo Zorzi (oggi cittadino giapponese, non estradabile, con il nome di Hagen Roi) per il coinvolgimento nella strage di Piazza della Loggia.
Il 15 maggio 2008 sono stati rinviati a giudizio i sei imputati principali: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi. I rinviati a giudizio Zorzi, Maggi e Tramonte erano all'epoca militanti di spicco di Ordine Nuovo, gruppo neofascista fondato nel 1956 da Pino Rauti e più volte oggetto di indagini, pur senza successive risultanze processuali, in merito all'organizzazione ed al compimento di attentati e stragi. Ordine Nuovo fu sciolto nel 1973 per disposizione del ministro dell'Interno Paolo Emilio Taviani con l'accusa di ricostituzione del Partito Fascista.
Gli altri rinviati a giudizio sono l'ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, all'epoca responsabile - con il grado di capitano - del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, e Giovanni Maifredi, ai tempi collaboratore del ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani.










BOXER

LA STRAGE DI BOLOGNA







La strage di Bologna


Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25, una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna.
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze;f urono molte le vittime e molte anche le testimonianze di quell'orribile giornata,di quello squallido frangente della storia Italiana.
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. Solo il 29 dicembre furono riconosciuti i resti della madre.
Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre.
E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nasconse lo sgomento: "Signori, non ho parole" disse,"siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore.
Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.
"I mandanti e gli ispiratori politici della strage non sono ancora stati giudizialmente individuati."






principe





LA FINE DELLE BRIGATE ROSSE

L'organizzazione è stata sradicata sia in conseguenza dell'azione di alcuni infiltrati dei servizi segreti, sia grazie a una legge che concedeva benefici penali ai membri che, arrestati, si fossero pentiti e avessero collaborato alla cattura di altri membri, ricusando la propria fede e denunciando i compagni. Un'altra ragione dello sfaldarsi delle BR fu il venir meno della loro attrattiva nei confronti delle aree movimentiste e del disagio sociale, e del loro progressivo isolamento ideologico durante la seconda metà degli anni settanta, a causa delle trasformazioni sociali in atto. Nel 1989 i processi per il rapimento di Cirillo e per l'omicidio di Ruffilli condannavano all'ergastolo l'ultimo drappello di terroristi catturati.


In Italia si discute ancora intorno alla sopravvivenza di questa organizzazione o a una sua possibile ricostituzione, dal momento che negli ultimi anni sono stati compiuti atti terroristici da parte di persone che si sono richiamate alle BR e ne hanno assunto il nome e le insegne.



Alcuni capi brigatisti arrestati e condannati sono attualmente inseriti in programmi di reinserimento sociale; molti di essi tuttora rilasciano interviste giornalistiche, pur senza mai aggiungere granché alle verità processualmente accertate. Da notare che la posizione di molti di essi è quella di non rinnegare il passato eversivo (i cosiddetti "irriducibili"). Nonostante la proposta di grazia per il capo storico delle BR, Renato Curcio, presentata all'allora capo dello stato, Francesco Cossiga, il pericolo rappresentato dalle BR non poteva dirsi affatto trascorso. Curcio, per tutto il mese di agosto 1991, aveva bollato come "conclusa" l'epopea brigatista, ma altri irriducibili erano di parere ben differente.



Molti esperti di terrorismo, considerato il numero degli irriducibili al tempo latitanti, espressero il dubbio circa l'effettiva eliminazione del gruppo terroristico nel 1988. Infatti, il 2 settembre 1993, venne compiuto un attentato contro la base americana di Aviano. L'indomani, due telefonate giunte, nel pomeriggio, alla redazione romana de La Repubblica ed,in serata, a quella di Pordenone de Il Gazzettino lasciarono pochi dubbi in proposito. Un'altra chiamata, anche alla sede di Milano dell'agenzia ANSA, recitò: "Qui Brigate Rosse. Rivendichiamo l'azione di Aviano". Una voce maschile, senza inflessioni dialettali, spiegò nei dettagli il movente e la dinamica dell'attentato, per fortuna senza morti e feriti, in quanto venne lanciata una bomba a mano ad elevato potenziale contro il muro di cinta della base dell'USAF. L'anno prima (18 ottobre 1992), la medesima rivendicazione era giunta per un attentato contro la sede romana della Confindustria. E, di nuovo, il 10 gennaio 1994, a Roma, si verificò un attentato alla NATO Defense College; il 23 febbraio 1996, sempre a Roma, si ebbe un ennesimo attentato dinamitardo contro una palazzina dell'Aeronautica Militare; ed erano stati i neo-brigatisti a sparare contro la sede regionale di Forza Italia a Milano nella notte del 12 marzo 2003.

Il 1992 viene identificato come l'anno di nascita dei movimenti che porteranno alla genesi delle Nuove Brigate Rosse. Agli attentati messi a segno dai Nuclei Comunisti Combattenti ("NCC"), si somma la fondazione, a Viareggio, il 21 novembre, dei Comitati di Appoggio alla Resistenza Comunista ("CARC"). Infatti, il 13 febbraio 1995 vengono arrestati due appartenenti agli Ncc, Fabio Mattini e Luigi Fucci. Quest'ultimo è stato il compagno di Nadia Desdemona Lioce, già ritenuta dalla Digos appartenente al gruppo sovversivo e irreperibile proprio dal '95.


Nonostante gli appelli della "Vecchia Guardia", che - l'11 maggio 1997, a Torino, chiese di porre fine una volta per tutte all'esperienza della lotta armata, la situazione continuò ad evolvere verso un nuovo scontro con lo Stato. Ai CARC ed ai NCC si aggiunge anche una sigla mai prima apparsa. Infatti, il 22 giugno 2000, a Riva Trigoso (Genova), cinque fogli dattiloscritti vengono recapitati tramite posta prioritaria alla rappresentanza sindacale unitaria della Fincantieri di Riva Trigoso. Contengono frasi inquietanti, minacce ed esortazioni agli operai affinché riprendano la lotta armata. Il documento, firmato con una stella a cinque punte simbolo delle Brigate Rosse posta sotto la dicitura Nucleo di iniziativa proletaria rivoluzionaria ("NIPR"), sarebbe stato inviato dall'aeroporto "Leonardo da Vinci" di Roma. La busta giunge anche ad altre aziende italiane, tra cui l'Ilva di Genova. Lo stesso gruppo aveva rivendicato il 19 maggio a Roma la paternità dell'ordigno esploso quattro giorni prima nelle sede della Commissione Antisciopero in via Po, a Roma.



"lukketto"




IL CASO MORO



Aldo Moro è stato un politico italiano, cinque volte presidente del Consiglio e del partito della Democrazia Cristiana (Dc). Nasce a Maglie, a Lecce, nel 1916 e dopo aver studiato Giurisprudenza si laurea e si impegna insieme a Giulio Andreotti nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, di cui sarà presidente dal 1938 al 1941. Il 16 Marzo 1978, l'auto che lo stava trasportando al Parlamento per la presentazione del nuovo governo, fu intercettata in Via Fani a Roma da un commando delle Brigate Rosse. Dopo aver usato una tecnica precisa, "a cancelletto", per incastrare l'auto di Moro e quella della sua scorta, le Brigate Rosse sparano a due carabinieri e tre poliziotti e sequestrano il presidente, costringendolo ad entrare in una Fiat 132, nonostante continui a gridare "Mi lascino andare! Cosa vogliono da me?". Quello a cui miravano le Brigate Rosse era attaccare la Dc e rapendo Moro stavano colpendo l'artefice della solidarietà nazionale e dell'avvicinamento tra Dc e PCI, che si concretizzò poi nel Governo Andreotti. Pochi mesi prima infatti l'intento sembrava essere quello di rapire il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, tentativo a cui i brigatisti rinunciarono poichè era un bersaglio troppo complicato da raggiungere. L'importante per loro era colpire IL simbolo del potere. Aldo Moro rimase prigioniero delle Brigate Rosse per ben 55 giorni e, sembrerebbe, mai nello stesso luogo. Dapprima si parlò infatti di un appartamento in Via Gradoli usato dai brigatisti Mario Moretti e Barbara Balzerami, spesso lasciato incustodito e troppo piccolo per contenere una prigio, ne; poi le testimonianze dei brigatisti porteranno il luogo della prigionia di Moro in Via Montalcini 8, sempre a Roma e da alcuni anni proprietà delle Brigate Rosse. In tutti quei giorni di prigionia Moro scrisse ben 86 lettere, poi raccolte in un pamphlet, "Lettere dal Patibolo". Le lettere erano destinate ai partiti politici, al presidente della Repubblica, del Consiglio e alcune alla stessa famiglia di Moro. In queste lettere Moro rivendicherà ciò che aveva già affermato al Congresso Dc, ossia che "la ragione di Stato non deve prevalere sulla ragione dell'uomo", anche se a succedere fu il contrario. I compagni di partito e i vecchi amici di Moro sostenevano che a scrivere quelle lettere non era l'uomo che conoscevano e che fosse manipolato e succube delle Brigate Rosse e delle loro "dettature". Moro viene privato della libertà di parola e considerato un traditore virtuale, accusando lo Stato di non saper difendere i suoi leader. Si pensa addirittura che in alcune delle lettere inviate da Moro alla famiglia abbia inserito dei messaggi criptici sul luogo della sua prigionia. Nei giorni del sequestro le Brigate Rosse proclamarono 9 comunicati, quasi illegibili, e con i quali volevano spiegare le motivazioni del rapimento del presidente. Inoltre le Brigate Rosse proposero uno scambio : il rilascio di Moro e la liberazione di uno dei brigatisti in carcere. La politica si stava intanto dividendo in due : il fronte della fermezza, che rifiutava la trattativa e secondo cui rilasciare un brigatista significava la resa da parte dello Stato; e il fronte possibilista, di cui facevano parte Bettino Craxi e il Partito Socialista, e che era disposto a un qualunque avvicinamento convinto che non avrebbe riportato conseguenze sulla dignità dello Stato. Ovviamente prevalse il fronte della fermezza, nonostante anche Papa Paolo VI supplicò "in ginocchio" i brigatisti di rilasciare Moro. Dal nono comunicato delle Brigate Rosse, si evince chiaramente che il destino di Moro è segnato : "Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perchè venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della Dc. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 Marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato". Il 9 Maggio 1978 alle 12.30 una telefonata all'assistente di Moro, il professor Francesco Tritto, annunciò alla famiglia dove potevano ritrovare il cadavere di Moro, e una telefonata alla Questura da parte del brigatista Valerio Morucci avvisò che ".. in Via Caetani c'è una Renault 4 rossa, targata N56786 con il corpo di Moro" [Telefonata]. E fu proprio in Via Caetani, a una emblematica distanza fra Piazza del Gesù, sede della Dc, e Via delle Botteghe Oscure, sede del PCI,che il cadavere di Aldo Moro venne ritrovato. Aldo Moro fu ucciso con l'inganno, convinto di dover essere trasferito in un altro covo e poi liberato, fu costretto a salire nel cofano della Renault, che si trovava nel garage del covo di Via Montalcini 8, e ucciso per mano di Mario Moretti. Subito dopo l'auto fu portata in Via Caetani, luogo del ritrovamento, dove poco dopo si riunirono tutti i politici e i familiari di Moro.







_Mummy_




MOVIMENTO DEL 1977

Il movimento del '77 nacque contemporaneamente alla crisi dei gruppi extraparlamentari che avevano condotto i movimenti successivi al '68, in modo del tutto spontaneo, e con la crisi della scuola classista le università si riempirono di studenti figli di proletari, quindi ora le università non erano solo quasi esclusivamente per i figli di famiglie adagiate. Uno dei principali movimenti di questo periodo è il movimento femminista che lottava per l'uguaglianza dei sessi, molto importante per questo movimento fu l'azione di Marco Pannella, che vinse il Referendumn per il divorzio. Molti altri erano gli scopi di questo movimento che andavano dalla lotta contro l'autoritarismo, per la liberazione omosessuale e l'antiproibizionismo. Furono fondate diverse riviste per la diffusione della culturas underground e la controcultura, in più, attraverso le radio libere si aggiungeva un nuovo mezzo di trasmissione di queste culture nuove come la “Punk 77”. Questo movimento attuava alcune pratiche nuove per la loro lotta come la riappropriazioni dei beni e spazi che erano, per loro, un diritto. Quindi case abbandonate furono occupate e ci fù l'autoriduzione di tasse e servizi. Queste azioni coinvolsero i settori emarginati delle città come le periferie degradate alle quali si aggiunse il problema della diffusione dell'eroina che il movimento si impegnò a contrastare con campagne e lotte. Nel '77 il movimento e l'Autonomia Operaia che voleva la lotta armata in piazza firmarono la rottura con il PCI contestandogli l'abbandono all'opposizione di classe al potere borghese,e questa rottura fu sancita dalla “cacciata di Lama”, cioè durante un comizio del segretario della CGIL nell'università La Sapienza di Roma, che era occupata dagli studenti, ci fù una contestazione dell'ala creativa e dell'Autonomia Operaia che si trasformò in lotta con il servizio di sicurezza del sindacato. A causa di questo scontro il comizio fu sciolto e Lama abbandonò la città. Dopo questo scontro la citta universitaria fu consegnata in mano alla polizia.

Gli scontri più duri di questo movimento furono a Bologna, Torino. A Bologna ci furono diversi scontri uno dei quali portò all'assassinio di Francesco Lorusso da parte delle forze dell'ordine durante un'azione di dispersione di un gruppo organizzatore di una contestazione. Questo fece da scintilla per far soppiare una serie di scontri con le forze armate, che fecero diverse vittime anche per l'intervento dei mezzi blindati che furono mandati del ministro degli interni Cossiga.


Torino anche fu scenario di numerosi scontri che durante una manifestazione portarono al lancio di due bombe molotov che bruciarono vivo uno studento del tutto estraneo agli schieramenti politici.Verso la fine degli anni '70 il movimento aveva esaurito la fase di rivolta. Con il rapimento di Moro molti aderenti al gruppo si scilsero dal movimento che alla fine divenne una piccola organizzazione, Democrazia Proletaria, che si schierò alla sinistra del PCI.


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ATTACCO AL CUORE DELLO STATO

A Padova il 17 giugno 1974 le Brigate Rosse fecero il primo - duplice - omicidio: nel corso di un'incursione nella sede del MSI, furono uccisi Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Il nucleo veneto gestì l'evento, rivendicandolo all'interno della pratica dell'antifascismo militante. Le Brigate Rosse, a livello nazionale, pur assumendone la responsabilità, ribadirono che la questione centrale dell'intervento armato era l'attacco allo Stato e non l'antifascismo militante.La prima azione condotta contro un esponente dello Stato fu il rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi, avvenuto a Genova, il 18 aprile del 1974. Sossi, che era stato Pubblico Ministero nel processo contro il gruppo armato genovese della "XXII Ottobre"", fu rapito e tenuto prigioniero in un villa vicino a Tortona. . Sossi fu sottoposto a "processo" dai brigatisti,e venne condannato a morte (lo slogan in voga all'epoca era: "Sossi fascista, sei il primo della lista!"). I brigatisti, però, offrirono allo Stato un'opzione, ovvero chiesero in cambio della sua liberazione la scarcerazione dei membri della "XXII Ottobre" detenuti, in una sorta di "scambio di prigionieri" tra Bigate Rosse e Stato. Durante il sequestro Sossi "collaborò" con i suoi carcerieri, svelando i retroscena di inchieste insabbiate dalla Questura genovese: dettagli che le Brigate Rosse resero pubblici.Arrivò l'offerta del Tribunale di Genova di rivedere la posizione dei detenuti della "XXII Ottobre" sfruttando le possibilità offerte dalle norme processuali. Sossi venne liberato a Milano il 23 maggio 1974, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza. Il Procuratore della Repubblica Francesco Coco non manterrà fede all'impegno e verrà successivamente ucciso l' 8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta. Si trattò della prima azione BR pianificata per uccidere, che inaugurò una lunga serie di omicidi politici. Il sequestro Sossi fu considerato un successo d'immagine delle BR, che nel periodo successivo iniziarono a pianificare il sequestro di Giulio Andreotti e di Gritti, collaboratore di Eugenio Cefis nel quadro di una campagna contro un presunto "progetto neo-gollista" della DC che avrebbe portato la Repubblica Italiana verso una svolta reazionaria.Tra il 1973 ed il 1974, le Brigate Rosse allargarono i loro rapporti organizzativi in varie regioni: consolidando i contatti con operai dei Cantieri Navali Breda e del Petrolchimico di Porto Marghera fu costituita la terza colonna, la colonna veneta; in Liguria, con alcuni operai dell'Italsider, fu creata la colonna genovese; nelle Marche si strinsero relazioni con esponenti dei Proletari Armati in Lotta, alcuni dei quali daranno vita al comitato marchigiano delle Brigate Rosse.Le forze speciali dei Carabinieri, capeggiate dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, furono appositamente costituite per la lotta al terrorismo politico e riuscirono a infiltrarsi e ad arrestare i leader storici: Curcio e Franceschini(due esponenti delle Brigate Rosse)furono arrestati l'8 settembre 1974 grazie alle informazioni di Silvano Girotto, un ex frate che aveva combattuto nella guerriglia sudamericana ed era soprannominato "frate Mitra". I due capi brigatisti furono arrestati mentre si stavano recando ad un incontro con Girotto, che era un informatore dei Carabinieri. Mario Moretti(un altro brigatista)si salvò dall'arresto, pur avendo incontrato Girotto in altre occasioni. Secondo alcuni si salvò perché non lo si era voluto catturare. Nel 1974 furono arrestati, tra gli altri Paolo Maurizio Ferrari, Piero Bertolazzi e Roberto Ognibene, militanti Brigate Rosse della prima ora.



Il 13 ottobre 1974, alla cascina Spiotta di Arzello, Acqui Terme (AL), si riunì la prima Direzione strategica delle BR. L'ordine del giorno riguarda la ridefinizione delle strutture e dell'intervento alla luce degli arresti dei due dirigenti dell'organizzazione.Nell'inverno 1974 si riunisce, nel Veneto la seconda Direzione strategica. All'ordine del giorno è la liberazione dei prigionieri. Viene deciso l'assalto al carcere di Casale Monferrato, che viene effettuato il 18 febbraio 1975 e porta alla liberazione di Renato Curcio.Curcio rimase latitante per 11 mesi prima di essere ulteriormente arrestato (gennaio 1976). Da allora rimase ininterrottamente in carcere fino al rilascio, nel 1993.Il 15 maggio 1975,nel quadro della campagna contro il "neo gollismo",viene gambizzato il consigliere comunale della DC milanese,Massimo De Carolis.Si tratta del primo ferimento intenzionale da parte dei brigatisti.Il 4 giugno,vi fu il primo sequestro a scopo di riscatto messo in atto per finanziare l' organizzazione:fu rapito l' industriale dello studente Vallarino Gancia,tenuto prigioniero presso il covo brigatista di Cascina Spiotta.Il 5 giugno,un casale controllo sfocia in un conflitto a fuoco,dove viene ferito mortalmente l appuntato dei carabinieri Giovanni D' Alfonso.In quest' occasionr resta uccisa Mara Cagol,fondatrice dell organizzazione e compagna di Renato Curcio.Alla sua memoria verrà dedicato il nome della colonna torinese delle Brigate Rosse.Tra il 1974 ed il 1976, in conflitti a fuoco tra militanti e forze dell'ordine perdono la vita tre militari: il maresciallo dei Carabinieri Felice Maritano, a Robbiano di Mediglia (MI) il 15 ottobre 1974 (colpito da Roberto Ognibenee per cercare di sfuggire all'arresto); l'appuntato di Polizia Antonio Niedda, a Ponte di Brentaa (PD) il 4 settembre 1975 (ucciso dal brigatista Carlo Picchiura durante un controllo casuale) ; il vice questore Francesco Cusano, a Biella (VC) l'11 settembre 1976 (ucciso da Lauro Azzolini e Calogero Diana).Nel corso del 1976, dopo il nuovo arresto di Curcio, catturato assieme ad altri militanti( Nadia Mantovani, Angelo Basone e Vincenzo Guagliardo), l'impianto organizzativo sancito nelle Risoluzioni del 1974 e del 1975 subisce una trasformazione radicale che non resterà senza conseguenze nel dibattito interno. Più precisamente: il Fronte delle grandi fabbriche viene assorbito all'interno del Fronte della lotta alla controrivoluzione, il quale verrà poi articolato al suo interno in vari settori d'intervento. Questa trasformazione costituisce una vera e propria "seconda fondazione delle Brigate Rosse": tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati per mettere meglio a punto "l'attacco al cuore dello Stato". La direzione esterna è diretta da Mario Moretti, quella in carcere è saldamente in mano a Curcio e Franceschini, i quali restano per tutte le Brigate Rosse i veri pensatori dell'organizzazione.
Le decisioni delle Brigate Rosse in carcere assumeranno maggiore peso man mano che le brigate carcerarie si allargano e le brigate del territorio e delle metropoli si assottigliano e i nuovi rincalzi sono per lo più giovani, "volenterosi", ma male equipaggiati ideologicamente.
Il 27 maggio ebbe iniziò a Torino il processo alle Brigate Rosse, alle quali i brigatisti detenuti risponderanno con "il processo guerriglia", rifiutando il ruolo di imputati, rifiutando gli avvocati e anche gli avvocati di ufficio. Minacciarono giudici, magistrati, avvocati (che verranno dichiarati "collaborazionisti") e la giuria popolare, in un clima di terrore, tanto che molti cittadini si rifiutarono di ricoprire il ruolo di giudici popolari.
L'8 giugno 1976, a Genova, le Brigate Rosse (guidate personalmente da Mario Moretti e dagli altri dirigenti ancora liberi, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli e Rocco Micaletto ) colpiscono mortalmente il procuratore generale Francesco Coco e i due militari della sua scorta (Antioco Dejana e Giovanni Saponara). Nei giorni del sequestro Sossi, Coco si era rifiutato di firmare la liberazione dei detenuti che le Brigate Rosse chiedevano in cambio della liberazione dell'ostaggio. Le Brigate Rosse definiscono questa azione come una "disarticolazione politica e militare delle strutture dello stato".
Il 15 dicembre 1976, intercettato da forze di polizia durante una visita alla famiglia a Sesto San Giovanni (MI), Walter Alasia, militante clandestino della colonna di Milano, ingaggia un conflitto a fuoco con la polizia. Muoiono, oltre ad Alasia, ventenne, due sottufficiali, Sergio Bazzega e Vittorio Padovani. La colonna di Milano delle Brigate Rosse prenderà il suo nome: Walter Alasia "Luca". I genitori di Alasia testimoniarono che fu il figlio il primo ad aprire il fuoco sulle Forze dell'Ordine, prendendo nettamente le distanze dalle scelte estremiste di Walter.
Il 12 febbraio 1977, con il ferimento intenzionale di Valerio Traversi, dirigente del ministero della Giustizia, la colonna di Roma compì la sua prima azione.Il sequestro dell'armatore Pietro Costa a Genova, organizzato da Moretti con il supporto della nuova colonna Genovese delle BR, mirava ancora una volta all'autofinanziamento e fruttò alle Brigate Rosse un riscatto di un miliardo e mezzo di lire, denaro che permise all'organizzazione di finanziarsi per molti anni.Sul finire del 1977, si verifica il primo contatto tra terroristi italiani e tedeschi. I rapporti tra i due movimenti eversivi non sempre furono così idilliaci come essi fecero accreditare a mezzo stampa, in quanto le Brigate Rosse trattavano la controparte tedesca "come degli scolaretti".
Il 16 novembre, a Torino, viene colpito mortalmente Carlo Casalegno, giornalista del quotidiano "La Stampa" (a sparare è Raffaele Fiore capo della colonna di Torino, con l'appoggio di Patrizio Peci, Piero Panciarelli e Vincenzo Acella). Questo omicidio viene rivendicato come risposta alla morte di Andreas Baader, Gudrum Enslin e Jean Carl Raspe, avvenuta il 18 ottobre 1977 nel carcere di Stammhein (Germania). I tre terroristi della RAF tedesca vennero trovati morti in carcere, secondo alcune frange "suicidati", dopo il fallimento del dirottamento a Mogadiscio del boeing 737 della Lufthansa da parte di un commando palestinese. A seguito della morte dei tre membri della RAF il 19 ottobre 1977 venne assassinato, sempre in Germania l'industriale e presidente della Confindustria tedesca Hanns-Martin Schleyer già tenuto prigioniero dai terroristi in seguito al suo rapimento del 5 settembre 1977. Notevoli sono le analogie sulle modalità operative del rapimento di Schleyer e di Moro, nonché sulle modalità dei rispettivi omicidi e sui ritrovamenti dei cadaveri, tanto da fare sospettare un comune addestramento; a riguardo si parlò a lungo di un supporto da parte della STASI o di altri servizi segreti oltre cortina di ferro.


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BRIGATE ROSSE - LA PROPAGANDA ARMATA

La propaganda della Stella


Il Sessantotto rappresentò,soprattutto per molti giovani, un'occasione per far sentire la propria voce. Fu una stagione che portò a galla il desiderio di partecipazione, di giustizia, di libertà insieme alla convinzione di poter trasformare le regole stesse della politica.Da qui il proliferare di gruppi, circoli e pubblicazioni con le più diverse denominazioni: questo variegato universo, affiancandosi a gruppi già esistenti di estrema sinistra, intendeva affermare la propria presenza nelle varie cerniere di una società sempre più vulnerabile.Ebbe così inizio la propaganda fuori dalle fabbriche e dalle università.




I primi a dar voce alle proprie motivazioni fu proprio il giovane nucleo delle Brigate Rosse. Nella primavera del '70 infatti,nel quartiere milanese di Lorenteggio, aveva inizio la propaganda di questo movimento: attraverso la diffusione dei primi volantini recanti la firma "Brigata Rossa"e sui quali vi è disegnata una simmetrica stella a cinque punte.




Questo sancisce la nascita di un progetto di guerra civile del quale,sfotunatamente,l'opinione pubblica sembra non accorgersene.





«L'autunno rosso è già cominciato, una scadenza di lotta decisiva nello scontro di potere [...] Contro le istituzioni che amministrano il nostro sfruttamento [...] la parte più decisa e cosciente del proletariato in lotta ha già cominciato a combattere per costruire una nuova legalità, un nuovo potere [...] ne sono esempi l'occupazione e la difesa delle case occupate come unico modo di avere finalmente la casa e l'apparizione di organizzazioni operaie autonome [le Brigate Rosse] che indicano i primi momenti di autorganizzazione proletaria per combattere i padroni e i loro servi sul loro terreno, alla pari, con gli stessi mezzi che usano contro la classe operaia: diretti, selettivi, coperti»



L'organizzazione volle farsi conoscere, rendendo chiaro che aveva appena iniziato la sua lotta contro gli "imperialisti" e che avrebbe contribuito, con l'aiuto delle masse educate alla guerra civile, alla liberazione del proletariato dallo sfruttamento a cui era sottoposto dalla società capitalistica e borghese.



Nel primo periodo le Brigate Rosse si limitarono ad atti di teppismo contro i beni delle aziende o dei loro dirigenti.Tra il 1970 e il 1974 le Brigate Rosse agiscono prevalentemente in ambito operaio, con piccoli gruppi che operano all'interno delle fabbriche in modo spesso clandestino. Vengono organizzati gruppi parasindacali, ognuno dei quali detto Brigata, che fa propaganda nelle fabbriche e in particolare nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione o nelle quali il rapporto dei lavoratori con la dirigenza è conflittuale. I militanti delle Brigate, oltre a diffondere le proprie idee, prendono di mira quadri e dirigenti aziendali, incendiandone le auto o realizzando brevi rapimenti, di solito della durata di qualche ora, allo scopo di intimidire il rapito e la dirigenza dell'azienda e dimostrare la forza e la spregiudicatezza dell'organizzazione. La prima azione risale al 17 settembre 1970, con l'incendio dell'automobile di Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens.




Tuttavia ben presto,questa azione propagandistica e intimidatoria, produsse solotanto dei risultati modesti e la strategia cambia. Il gruppo decide così di attaccare lo Stato,colpendo quelli che ritengono esserne i rappresentanti ,ossia:i politici,i magistrati e le forze dell'ordine. Andando ad aumentare con il tempo la gravosità delle proprie azioni,scrisse uno dei capitoli più tragici della storia italiana.






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LEGGE VALPREDA




Pietro Valpreda nasce a Milano nel 1933. Dai primi anni ’60 frequenta gli ambienti anarchici a Milano, a Roma, dove lo porta la sua professione di ballerino nei teatri di rivista. Intorno al ’68 dà vita, con altri più giovani compagni, ad un gruppo anarchico, scegliendo come nome la data dell’inizio del movimento di lotta francese: il 22 marzo. Il gruppo è caratterizzato da posizioni spacca-tutto e da un linguaggio incendiario.
Il 12 dicembre 1969 Valpreda è a casa della sua prozia Rachele Torri e vi rimane tutto il giorno, ed anche i successivi, febbricitante. Non ha piazzato lui la bomba nella Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana. Non ha fatto niente, perché è rimasto tutto il giorno chiuso in casa. Ma il 15 dicembre, mentre si reca in Tribunale per una piccola pendenza politica, viene arrestato. E lì inizia un vero e proprio calvario, che durerà tre anni, ne segnerà la vita e lo trasformerà nell’anarchico più famoso in Italia.
Valpreda è perduto. La furia della belva umana (“Corriere d’informazione”), L’anarchico Valpreda arrestato per concorso nella strage di Milano (“Corriere della Sera), Arrestati gli assassini (Il Messaggero), Un anarchico arrestato per la strage (Il Resto del Carlino), Arrestato un comunista per la strage di Milano (Il Secolo d’Italia), Il mostro è un comunista anarchico ballerino di Canzonissima: arrestato (Roma). Sono questi alcuni dei titoli cubitali dei quotidiani del 17 dicembre.
Proprio lo stesso giorno i militanti anarchici milanesi convocano una conferenza-stampa nello scantinato alla Bovisa che ospita il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa. “Valpreda è innocente, Pinelli è stato assassinato, la strage è di Stato” sostengono i compagni, certi – senza alcuna ombra di dubbio – dell’innocenza di Pietro. Certo, lui si era più volte comportato come “un pirla”, come lo aveva definito Pinelli (assassinato in questura due notti prima della conferenza-stampa) con quel suo minacciare verbalmente “bombe, sangue, anarchia”. Ma tra il dire e il fare… Qui si è davanti ad un gioco molto più grosso, nel quale devono essere coinvolti, e ai massimi livelli, lo Stato e i fascisti.
I pochi giornalisti presenti ascoltano, prendono appunti. Ma non danno credito a quel pugno di anarchici, preferendo far del colore sulle nebbie della periferia, sullo scantinato visto come “un covo”. Farneticante conferenza-stampa al Circolo Ponte della Ghisolfa. Nessuna recriminazione fra gli anarchici. Titola il giorno dopo il “Corriere della Sera”.
Inizia proprio da quella conferenza-stampa la battaglia di giustizia e verità che progressivamente si estende alla sinistra extra-parlamentare, poi a quella parlamentare fino ad abbracciare, tre anni dopo, ampi settori della società. Nel nome di Valpreda (e dei suoi co-imputati, e di Pinelli, e dei tanti compagni caduti in quegli anni sotto il piombo poliziesco o in imboscate fasciste) si sviluppa la più vasta mobilitazione popolare nell’Italia del dopoguerra: migliaia di iniziative, una grande tensione, una campagna di contro-informazione che si sviluppa capillarmente un po’ ovunque.
Si arriva nel ’72 (dopo che Valpreda è stato candidato-protesta nelle liste elettorali de “Il Manifesto”) all’approvazione da parte del Parlamento di una legge appositamente promulgata per permettere la scarcerazione di Valpreda, vissuta come un’ingiustizia bruciante da troppe persone. Quella legge, passata alla storia come “legge Valpreda”, abroga la norma precedentemente in vigore, secondo la quale un imputato per gravissimi reati (tra cui, la strage) non poteva essere scarcerato fino ad una sentenza di assoluzione. Con la nuova legge, invece, la scarcerazione anche in quei casi è possibile. E così Pietro può uscire, salutato da festosi articoli di gran parte dei mass-media, compresi quelli che ne avevano accompagnato l’arresto con complimenti tipo “mostro”, “assassino”, “belva”.


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BRIGATE ROSSE - L'IDEOLOGIA


Secondo fondatori e dirigenti, le Brigate Rosse dovevano "indicare il cammino per il raggiungimento del potere, l'instaurazione della dittatura del proletariato e la costruzione del comunismo anche in Italia". Tale obiettivo doveva realizzarsi attraverso azioni politico-militari e documenti di analisi politica , che indicavano gli obiettivi primari e la modalità per raggiungerli.
I Brigatisti ritenevano non conclusa la fase della Resistenza all'occupazione nazifascista dell'Italia; secondo la loro visione all'occupazione nazifascista si era sostituita una più subdola "occupazione economico-imperialista del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali)", a cui bisognava rispondere intraprendendo un processo di lotta armata che potesse scardinare i rapporti di oppressione dello Stato. Le Brigate Rosse hanno quindi sempre rifiutato la definizione di "organizzazione terroristica", attribuendosi invece quella di "guerrigliera".
L'ideologia brigatista si riconduceva, a dire di chi la propugnava, ad una "incompiuta lotta di liberazione partigiana dell'Italia"; come i partigiani avevano liberato il popolo dalla dittatura nazifascista, le BR avrebbero liberato una volta per tutte il popolo dalla servitù alle multinazionali statunitensi.
Le Brigate Rosse operarono in Italia a partire dall'inizio degli anni settanta , attraverso una struttura politico-militare compartimentata e organizzata per cellule. Compivano atti di "guerriglia urbana" e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del potere politico, economico e sociale (uccisione, ferimento o sequestro di numerosi uomini politici, magistrati e giornalisti).Le BR erano strutturate come un vero e proprio esercito di liberazione nazionale, non dissimile da quello vietnamita.
Il gruppo di comando dell'organizzazione, detta "direzione strategica", definiva la "linea politica" da seguire per un certo periodo. All'interno della linea decisa, ogni singola "colonna" definiva anche le azioni armate da compiere. Le azioni più importanti venivano decise dal "Comitato esecutivo", composto da quei membri della "direzione strategica" che avevano la responsabilità di dirigere una "colonna".Il modello da cui trarre ispirazione è però quello partigiano. A ribadire la figliolanza con il movimento partigiano della Seconda Guerra Mondiale, l'uso dei militanti BR di adottare i cosiddetti "nomi di battaglia" per evitare l'identificazione degli appartenenti.
Ma il punto debole dell'intera struttura è identificabile nella rigida verticalità dell'organizzazione che non lasciava spazi autonomi alle diverse colonne. Tale rigida organizzazione gerarchica sarà la causa della scissione (Novembre 1979 - Novembre 1980) del movimento nei due tronconi, ala militarista e colonna milanese autonoma (la famigerata "Walter Alasia") ed alla successiva spaccatura, nel triennio 1981 - 1984, tra ala militarista ed ala movimentista, e della sua infiltrazione da parte dell'antiterrorismo che condurrà allo smantellamento definitivo dopo il rapimento del generale statunitense Dozier, nel 1982. Dal 1982 si assiste allo sgretolamento della logica verticistica ed all'affermarsi di innumerevoli autonome entità, per cui viene meno il centro di comando rappresentato dalla "Direzione Strategica". Le nuove Brigate Rosse che si affermeranno tra il 1992 ed il 2009 ricalcheranno la struttura "frammentaria" degl'ultimi anni delle BR storiche.


-giacomino

TERRORISMO DELLA SINISTRA


Negli anni Settanta in Italia si registrò una impressionante diffusione della violenza politica. Forte di elaborazioni teoriche atte a giustificarne legittimità e necessità, essa iniziò ad entrare nel repertorio delle forme d'azione di sempre più numerosi attori collettivi. Il fenomeno raggiunse poi le sue manifestazioni più esasperate nelle formazioni dedite alla lotta armata sovversiva . Peculiare del contesto politico e sociale italiano fu inoltre il simultaneo passaggio alla lotta armata da parte di attori di orientamento tra loro diametralmente opposto, così da dare luogo ad un duplice fenomeno: un terrorismo stragista di orientamento prettamente reazionario da un canto e uno eminentemente anti sistema e mosso da finalità antirivoluzionarie dall'altro. Proprio in virtù della spiccata connotazione anti-Stato del terrorismo di sinistra, nel presente contributo ci si concentrerà esclusivamente su quest'ultimo.
L'impianto analitico di questo articolo verte sul paradigma del "nemico di Stato" inteso come prospettiva privilegiata da cui affrontare questioni relative alla cultura politica italiana. L'intero saggio sarà sviluppato a partire dall'ipotesi che furono le stesse organizzazioni terroristiche - ed in particolare la principale di queste, le Brigate Rosse - a proporsi in prima persona, attraverso le loro dichiarazioni di guerra allo Stato e la volontà di colpirne "il cuore", come nemico di Stato per eccellenza. Al centro della ricerca saranno pertanto poste sia le modalità di auto rappresentazione delle Brigate Rosse sia la percezione che di queste ebbero i settori sociali più direttamente coinvolti nello scontro politico in corso - movimento operaio, popolazione studentesca e sinistra extraparlamentare in primo luogo. Specularmente a questa prospettiva analitica, ma nella opposta direzione di indagine, si presterà inoltre attenzione alle immagini che nell'ambito del pubblico dibattito sul terrorismo di sinistra emersero anche rispetto alle rappresentazioni dello Stato italiano.
A partire dagli elementi più significativi incontrati nel corso della ricerca saranno sviluppate alcune riflessioni su un paio di questioni fondamentali per la storia dell'Italia repubblicana: in primo luogo il problema della legittimazione, o meglio della delegittimazione dello Stato italiano, che negli anni Settanta parve raggiungere un picco fino ad allora sconosciuto. Secondariamente sarà affrontata anche la questione della conflittualità sociale e della violenza all'interno delle culture politiche dominanti nel periodo storico trattato. Considerazioni conclusive tenteranno infine di proporre una sintesi complessiva delle problematiche affrontate e della lettura interpretativa proposta.


Nemico di Stato vs. Stato nemico


Al fine di ricostruire l'autorappresentazione della principale formazione terroristica italiana - le Brigate Rosse - è opportuno distinguere tra la fase della sua formazione (1970/73) e la fase del consolidamento strutturale e organizzativo oltre che della sua affermazione sulla scena sociale in quanto attore politico (dal 1973/74 fino al sequestro Moro). Nella prima fase l'autorappresentazione delle BR si sviluppò, ovviamente, parallelamente al processo di costituzione del gruppo e rifletteva di conseguenza e in maniera diretta il contesto politico e culturale in cui tale processo si compì. Un contesto che si collocava interamente all'interno dei duri conflitti che travagliavano il mondo del lavoro sin dalla fine degli anni Sessanta. Schematizzando in maniera necessariamente riduttiva, all'origine della svolta verso la lotta armata clandestina si poneva la ricerca di un'organizzazione e di una strategia di lotta "più incisive" con cui contrastare gli sforzi di componimento dei conflitti cui si stavano invece energicamente adoperando i sindacati a ridosso dell'autunno caldo. Fu esattamente in tale contesto che alcune formazioni politiche, tra cui le Brigate Rosse, rafforzarono le proprie posizioni circa la necessità di passare ad una strategia d'azione incentrata sulla lotta armata. Lo spazio d'azione privilegiato fu, in questa prima fase, quasi esclusivamente la fabbrica, mentre il nemico fondamentale contro cui l'azione era diretta erano "il padrone" e "il capitale". Si sostiene pertanto che già nella fase della loro formazione le BR si qualificassero per uno spiccato carattere antisistema poiché il loro attivismo era consapevolmente rivoluzionario e animato dall'idea di abbattere l'ordine sociale esistente. Tuttavia, lo Stato, sia nella sua accezione di figura giuridica che, più concretamente, di centro dell'esercizio del potere, era ancora lontano dagli orizzonti politici delle Brigate Rosse.
Una svolta importante nel percorso che porterà le BR a porre lo Stato al centro della propria azione rivoluzionaria si avrà invece in coincidenza con alcuni mutamenti all'interno del quadro politico nazionale, tra cui il più influente fu sicuramente la proposta di
compromesso storico lanciata dal Pci nell'autunno 1973. Un ulteriore sviluppo si avrà inoltre anche sul piano delle elaborazioni teoriche e delle analisi politico-sociali compiute dalle stesse BR. A partire dal 1974 esse inizieranno infatti ad interpretare gli sviluppi politici in corso a partire dal concetto di "neogollismo", una sorta di parola chiave con cui cercheranno di dotare di fondamenta teoriche la loro visione indistinta e "continuista" del potere. Ecco allora che, sulla base di una serie di passaggi logici compiuti nella "diagnosi del presente" delle Brigate Rosse, lo Stato (identificato tout court con il partito di governo, ossia la Dc) iniziò ad assumere contorni sempre più nitidi quale obiettivo finale contro cui rivolgere la propria azione. Si spiega così tra il 1973 e il 1974 il progressivo abbandono della "logica fabbrichista" a favore di un'offensiva centrata sulle figure istituzionali a più alta valenza simbolica del potere statuale.
Alla luce degli sviluppi appena accennati si sostiene pertanto che fu proprio in conseguenza di tale svolta - che si potrebbe sintetizzare in uno spostamento dell'orizzonte politico delle BR dal capitale allo Stato - che si compì un mutamento anche nell'autorappresentazione del gruppo. Se inizialmente era prevalsa la sua connotazione di classe, ora era il suo carattere
anti-Stato ad assumere contorni sempre più marcati.


La percezione sociale del terrorismo


Una volta precisate sia l'autorappresentazione delle BR che la portata antisistema della loro strategia politica, si desidera ora spostare il campo dell'osservazione su alcuni importanti settori sociali per verificare se e in quale misura il paradigma del nemico di Stato abbia avuto un ruolo nella percezione e spiegazione del terrorismo.


Movimento operaio e sindacale


All'interno del movimento operaio le reazioni nei confronti del terrorismo si contraddistinsero per una certa lentezza nelle reazioni oltre che per alcune ambiguità negli atteggiamenti. Nella prima metà degli anni Settanta tale lentezza di reazione derivava anche da difficoltà oggettive a distinguere l'azione di formazioni politiche impostate sulla lotta armata sovversiva dalle azioni violente che nei primi anni Settanta erano di fatto entrate a far parte dello "spirito dei tempi". Più facile da riconoscere era inoltre il terrorismo stragista di matrice reazionaria,che per il carattere qualitativamente "innovativo" della strategia d'azione perseguita non presentava ambiguità nel presentarsi sulla scena sociale.


Una certa reticenza a prendere una netta posizione all'interno del movimento operaio si poteva tuttavia osservare anche negli anni successivi, quando ormai l'esistenza del terrorismo antisistema e del rispettivo disegno politico erano venuti alla luce in termini inequivocabili. Nelle grandi industrie del Nord si poteva addirittura riscontrare che la violenza come prassi d'azione politica fosse tendenzialmente vista come un dato di fatto acquisito che non suscitava particolari turbamenti. Atteggiamenti di "non-ripulsa" se non addirittura di aperta condiscendenza verso certe "pratiche antipadronali" delle BR in fabbrica riguardarono tuttavia una parte minoritaria del movimento operaio, ossia la componente operaia più radicalizzata e spesso in aperto contrasto con le organizzazioni sindacali. Il mondo del lavoro che invece nei sindacati si riconosceva aderì sostanzialmente anche al giudizio di condanna incondizionata da questi espresso. L'argomento principale sostenuto dai sindacati verteva sulla fatale convergenza tra gli effetti indotti dal terrorismo e i disegni politici dei settori politici più reazionari operanti all'interno del paese. Significativo per il tipo di giudizio espresso dalle organizzazioni sindacali è tuttavia che esso non verteva tanto sul carattere antisistema del terrorismo né si ancorava al paradigma del "nemico di Stato", poiché l'accento cadeva piuttosto sul concetto del nemico "di classe".


Il Pci


Un discorso posto in termini analoghi era stato sviluppato e poi sostenuto con massimo rigore e coerenza dal Pci nella seconda metà degli anni Settanta, allorché all'interno del partito era andata affermandosi una linea volta ad una netta e rigorosa presa di distanza da tutte le forme di "estremismo" che si ponevano alla sinistra del partito . Ciò indusse il partito a sviluppare un discorso ruotante anche e maniera sempre più esplicita attorno al paradigma del nemico di Stato. La lotta al terrorismo doveva in effetti compiersi attraverso l'isolamento sociale di tutte le forze in qualche modo favorevoli alla lotta armata o, ancor meglio, attraverso la loro integrazione all'interno di un discorso politico complessivo che tuttavia doveva necessariamente svilupparsi nel rispetto della legalità . A questo proposito occorre tuttavia precisare che il teorema sviluppato dal Pci sul ruolo funzionale del terrorismo rispetto agli interessi più reazionari operanti all'interno del paese verteva in misura decisamente dominante sulla necessità di salvaguardare la democrazia fondante la vita della Repubblica italiana che non su una aprioristica e astratta presa di posizione in difesa dello Stato. Certo, il Pci mostrò sensibilità e consapevolezza rispetto al valore etico-morale oltre che giuridico-istituzionale dello Stato di diritto. Tuttavia, l'accento del discorso sostenuto dal partito cadeva inequivocabilmente sulla necessità di difendere a spada tratta - la democrazia e la Repubblica- una Repubblica la cui legittimazione derivava in primo luogo dalle sue origini resistenziali.


Studenti e sinistra extraparlamentare


In ambito studentesco gli atteggiamenti nei confronti della violenza politica furono fortemente condizionati dal cosiddetto "movimento '77" . Il grande "rifiuto intransigente" che emerse in occasione della rivolta studentesca nei mesi compresi tra il febbraio e il settembre del 1977 aveva contribuito ad ampliare significativamente la disponibilità alla violenza in vaste fasce giovanili . Nonostante le scioccanti esaltazioni della P 38 che caratterizzavano le manifestazioni studentesche di quei mesi, la rivolta studentesca non si collocava tuttavia in alcun modo all'interno del disegno politico perseguito dal terrorismo. Malgrado un indubbio ampliamento della base di reclutamento del terrorismo (soprattutto di Prima Linea) il "movimento" portò piuttosto alla luce evidenti linee di rottura con il retaggio politico di cui erano invece espressione le formazioni dedite alla lotta armata .
Per quanto concerne il dibattito sul terrorismo all'interno della sinistra extraparlamentare va precisato che la discussione riguardò prevalentemente i mezzi dell'azione che non il disegno strategico perseguito dalle formazioni della lotta armata. Soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta alcune componenti della sinistra extraparlamentare, tra cui in maniera forse più intensa e approfondita le forze residue della ormai dissoltasi Lotta Continua
, aprirono un dibattito sulla violenza politica e sulla sua legittimità in quanto prassi d'azione . E' tuttavia importante sottolineare che tale discussione fu stimolata in misura decisiva non dal terrorismo ma dal carattere ormai drammaticamente endemico che la pratica della violenza aveva nel frattempo assunto. Questo era l'aspetto che più interessava e preoccupava la sinistra extraparlamentare e non tanto dunque che gruppi di lotta armata sovversiva potessero mettere a repentaglio l'esistenza dello Stato. Rispetto al terrorismo, la posizione espressa dalla formula lanciata da Lotta Continua «né con le BR né con lo Stato» relativamente al soffocante clima politico dominante nelle settimane del sequestro Moro, era sintomatica di un diffuso sentimento di emarginazione e straniamento che in quegli anni si poteva riscontrare non più solo in ampi settori del mondo giovanile e studentesco, ma anche negli stessi ambienti politicamente impegnati della sinistra extraparlamentare.


Gli intellettuali


Anche tra gli intellettuali è alquanto improbabile riscontrare un giudizio sul terrorismo che potesse in qualche misura evocare un richiamo al paradigma del nemico di Stato. Un dibattito del tutto particolare su "intellettuali, terrorismo e Stato" si scatenò in Italia tra la primavera del 1977 e la primavera dell'anno successivo in occasione del sequestro Moro. Seppur nessun intellettuale espresse mai approvazione, comprensione o altri sentimenti di simpatia per il terrorismo, una parte cospicua del mondo intellettuale manifestò tuttavia grande contrarietà a schierarsi "con o contro lo Stato", poiché avvertiva in ciò una forte volontà di strumentalizzazione del terrorismo da parte delle istituzioni finalizzata al perseguimento di una "indifferenziata stretta solidale e assolutoria attorno allo Stato". La posizione, articolata in un lungo e controverso dibattito che a ritmo serrato si svolse sui maggiori organi di stampa, apparentemente si avvicinava molto a quella espressa dalla sinistra extraparlamentare. Essa si caricava tuttavia di maggiore spessore critico poiché più ampi furono gli sforzi compiuti dagli intellettuali nel rendere conto anche delle ragioni storiche oltre che immediatamente politiche del proprio senso di "estraneità" se non di vero e proprio "risentimento" nei confronti dello Stato italiano. Sotto accusa non era infatti posto un astratto concetto di Stato e nelle argomentazioni sviluppate non traspariva alcuna condivisione del discorso antisistema che circolava invece all'interno della sinistra extraparlamentare o negli ambienti studenteschi. Sotto accusa venivano posti, in tutta la loro concretezza, lo Stato repubblicano italiano e il sistema di potere democristiano ad esso ancorato, così come, non da ultimo, anche la posizione assunta con determinazione crescente dal Pci, che da massimo partito dell'opposizione si era tramutato in strenuo sostenitore del rigore legalitario in difesa dell'ordine sociale e del sistema politico-istituzionale esistenti.
Dal sintetico quadro appena tratteggiato risulta alquanto difficile, se non impossibile, riscontrare una significativa rilevanza politica del paradigma del nemico di Stato nella comprensione e percezione sociale del terrorismo antisistema degli anni Settanta. Se un tentativo di proporsi in tal senso era stato compiuto da parte delle organizzazioni terroristiche - attraverso una dichiarazione di guerra allo Stato - esso non fu colto dalla società italiana, né in positivo, nel senso dell'avvio di una vera e propria situazione rivoluzionaria nonostante l'impressionante crescita delle formazioni terroriste sul finire del decennio, né in negativo, nel senso di una eventuale stigmatizzazione del terrorismo come nemico di Stato n. 1. Gli strenui sforzi del Pci e dei sindacati nel cercare di reagire alla sfida lanciata tentando di mobilitare istituzioni e società civile su un discorso ancorato anche al paradigma del nemico di Stato - o, più precisamente, nemico della democrazia o, al limite, dello Stato repubblicano - non riscontrarono il successo sperato neanche all'interno del movimento operaio. Queste considerazioni ci portano pertanto a sviluppare alcune riflessioni su
una questione direttamente connessa con la debolezza del paradigma del nemico di Stato in Italia, ossia il problema della precaria base di legittimazione su cui lo Stato si reggeva.


Il problema della fragile legittimazione dello Stato


Sul problema storico della scarsa, debole ed instabile base di legittimazione dello Stato italiano nelle diverse fasi della sua storia esiste ormai una lunga tradizione di studi che ne ha evidenziato la natura estremamente complessa e sfaccettata. Come ha ben evidenziato Massimo L. Salvadori, una delle peculiarità della storia politica italiana sta nella incapacità di interazione delle diverse forze politiche all'interno di un unico e comune spazio di azione, così che in Italia la nascita di un regime o di un sistema politico è risultata sempre da un processo d'interazione tra «forze aventi concezioni dello Stato e dei rapporti sociali antitetiche» nel corso del quale ha finito necessariamente per affermarsi in maniera esclusiva una di queste forze a scapito delle altre. A partire da tali peculiarità è stata spiegata l'eccezionale diffusione che in Italia ha riscontrato il noto « atteggiamento di contestazione della legittimità» del potere e della classe dirigente italiana. A questo riguardo Luciano Cafagna ha utilmente rilevato come tale atteggiamento - da egli sintetizzato nel concetto di delegittimazione - presenti una duplice matrice di cui è importante tenere conto. Esiste in effetti una profonda differenza tra una delegittimazione che nasce dalla implicita conferma del riconoscimento dei principi legittimanti ma che si costituisce proprio a partire dalla denuncia dell'inosservanza di quei principi da parte di chi esercita il potere, e una delegittimazione «che parte (invece, nda ) da altri e diversi principi (...) e che quindi rifiuta la legittimazione pretesa nelle sue stesse basi » . Si tratta di una differenza importante poiché essa ci consente di stabilire un discrimine qualitativo con cui distinguere analiticamente tra critica intra- e critica antisistema.
Alla luce di tali considerazioni è necessario allora interrogarsi su come si manifestava il problema della legittimazione/delegittimazione o, per dirla in termini salvadoriani, del rapporto tra le «forze dello Stato» e «le forze dell'anti-Stato» nello specifico contesto storico dell'Italia degli anni Settanta. Per rispondere a questo quesito è opportuno partire dall'individuazione di quelle forze politiche e sociali che nel periodo storico considerato più si fecero interpreti di un atteggiamento di contestazione della legittimità. Sotto questo profilo l'elemento di maggiore novità, oltre che più gravido di conseguenze, va sicuramente colto nel nuovo corso politico-programmatico intrapreso dal Pci dal 1973. La svolta "eurocomunista" del Pci si faceva in effetti potenzialmente carico di un progetto di integrazione politica di quelle vaste ed articolate componenti sociali che nel partito si riconoscevano (almeno nel momento elettorale) e che erano pertanto invitate a condividerne l'orientamento programmatico. Il risultato di maggior rilievo si sarebbe potuto pertanto tradurre in un ridimensionamento di portata decisiva del discorso antisistema e anti-Stato all'interno del paese. Inoltre, se è vero che, come è stato osservato
, entrambe le subculture dominanti nell'Italia repubblicana, il cosmopolitismo cattolico e l'internazionalismo comunista, si richiamavano a valori sovranazionali che non potevano giovare al rafforzamento dell'identità nazionale e tanto meno all'identificazione con le istituzioni costitutive dello Stato, a maggior ragione si può sostenere che la svolta in senso «patriottico istituzionale» compiuta dal Pci negli anni Settanta si faceva portatrice di grandi speranze nel senso di una vera e propria svolta anche rispetto alla delicata questione dell'identità nazionale.
Il "nuovo corso" intrapreso dal Pci non poteva, d'altra parte, non suscitare reazioni critiche in quei settori della sinistra che si sentivano le principali vittime di tale progetto. All'interno delle neonate formazioni della sinistra extraparlamentare e di quelle componenti giovanili più politicamente impegnate, ma soprattutto tra le formazioni politiche che avevano comunque già optato per la strategia della lotta armata sovversiva, andò progressivamente rafforzandosi la convinzione che il sistema politico italiano fosse ermeticamente chiuso a qualsiasi istanza radicale di mutamento. Agli occhi di tali soggetti politici l'unica possibilità di intervenire sui rigidi rapporti di potere esistenti pareva dunque doversi necessariamente caricare di una valenza rivoluzionaria. A sostegno di tale pessimistica analisi politica furono interpretati anche i risultati delle elezioni politiche del giugno 1976, in cui il Pci registrò uno dei suoi maggiori successi, mentre la sinistra extraparlamentare doveva prendere atto di una palese sconfitta. Non fu dunque per casuale consequenzialità cronologica se proprio nella seconda metà degli anni Settanta si assistette ad una crescita di carattere esponenziale delle formazioni dedite alla lotta armata. Né casuale fu che in quello stesso periodo, ossia a pochi mesi dalle elezioni del 1976, si sviluppò quella dirompente rivolta giovanile-studentesca che rivolgeva i suoi sussulti di impotente rabbia proprio contro l'ordine sociale esistente e gli sviluppi politici in corso. Si sostiene pertanto che l'orientamento comprimissorio-integrazionista perseguito dal Pci ebbe tra gli altri anche l'effetto di rafforzare, nel senso di una loro ulteriore radicalizzazione sia le cosiddette forze dell'anti-Stato sia, parallelamente, i termini di un discorso di delegittimazione del sistema politico fondato sulla messa in discussione degli stessi principi costitutivi dello Stato.
Di altra natura furono invece le reazioni critiche manifestatesi all'interno del mondo intellettuale. Il "nuovo corso" e soprattutto la posizione assunta dal Pci rispetto al terrorismo sollecitarono in numerosi intellettuali una critica politica che in ultima analisi andava a confluire in un discorso di delegittimazione che contestava a tutte le forze politiche istituzionali la capacità di un esercizio del potere coerente coi principi democratico-costituzionali su cui si reggeva lo Stato.
Negli anni Settanta si crearono una situazione e un clima politico per certi versi paradossale: se da un lato il progetto politico del Pci mirava ad accomiatarsi da quei presupposti antisistema su cui il partito aveva costruito la propria identità politica oltre che la sua pluridecennale opposizione, dall'altro esso suscitò, seppur indirettamente, la radicalizzazione di quelle residue ma ancora molto vaste componenti sociali che continuavano invece a riconoscersi in un discorso di delegittimazione di tipo antisistema. Nella particolare costellazione politica di quel decennio accadde pertanto che tale discorso andò ad incontrarsi, convergendovi, pur senza mai fondervisi, con un altro discorso di delegittimazione: quello che seppur muoveva da presupposti di condivisione di base del sistema (dello Stato democratico repubblicano) contestava tuttavia le credenziali dei soggetti politici che avocavano a sé l'esercizio del potere. Riprendendo le già citate tipizzazioni proposte da Cafagna, si sostiene pertanto che negli anni Settanta entrambi i due tipi di delegittimazione si svilupparono e radicalizzarono, entrando in un rapporto dialogico che finiva per potenziarne reciprocamente la rispettiva portata. Ecco allora che l'intreccio tra questi due distinti discorsi contribuì, seppur, come ovvio, in concomitanza anche con altri fattori, al raggiungimento di un picco di delegittimazione, ossia di un livello estremo di messa in discussione dello Stato sia nei suoi valori fondativi che nella capacità di governare della sua classe dirigente (crisi della governabilità).


La conflittualità sociale e la violenza nella cultura politica italiana


Un altro complesso di fattori utile a comprendere l'inefficacia del paradigma del nemico di Stato per lo studio della percezione sociale del terrorismo italiano negli anni Settanta va ricercato nelle modalità di gestione della conflittualità sociale e nel posto occupato dalla violenza nella cultura politica italiana. L'assenza o la scarsa efficacia di un sistema istituzionale della mediazione dei conflitti ha fatto sì che in Italia la conflittualità sociale si sia prevalentemente espletata su un modello di contrapposizione frontale contemplante anche, seppur non necessariamente, la violenza. Mentre un articolato sistema di mediazione, strutturato su più livelli e suddiviso in arene tra loro distinte favorirebbe, così come si era verificato nella Germania federale, la disaggregazione delle materie del conflitto nelle sue diverse dimensioni - economiche, sociali e politiche -, un sistema basato sul confronto diretto e frontale delle forze confliggenti stimolerebbe, per contro, la formazione di "accumuli di conflittualità". In conseguenza di ciò tenderebbero a verificarsi con frequenza situazioni in cui i diversi fattori e le diverse dimensioni in gioco si trovano tra loro inestricabilmente aggregate o indistintamente fuse, così che un superamento della conflittualità o di particolari situazioni di conflitto non può che essere ritenuto possibile solo tramite un mutamento radicale o rivoluzionario dell'intero contesto entro cui tale conflittualità si manifesta. Questa è stata la tendenza dominante i rapporti sociali e la conflittualità in Italia . Una tendenza che rispecchiava profondamente sul piano delle dinamiche sociali le condizioni poste dalla chiusura costitutiva del rigido sistema politico italiano, che non consentiva alternative se non attraverso l'affondamento del regime politico esistente e la formazione di uno nuovo . Pertanto, se è forse azzardato avanzare l'ipotesi che la violenza rappresentasse un fattore consustanziale alla cosiddetta democrazia bloccata che ha caratterizzato la storia dell'Italia repubblicana, è plausibile tuttavia sostenere l'esistenza di uno stretto rapporto tra le continue manifestazioni di violenza politica che hanno segnato la storia italiana e le tendenze ad una gestione non mediata dei conflitti anche all'interno dell'ordine politico democratico-repubblicano.
Sulla non riuscita del "modello bundesrepublikano" in Italia si possono avanzare diverse illazioni. Una di queste deve necessariamente prendere in considerazione la questione della violenza all'interno delle principali subculture in cui la cultura politica italiana si è articolata. Uno sguardo particolare deve essere rivolto alla subcultura socialista-comunista, all'interno della quale, tenuto conto delle dovute distinzioni e sfumature, la violenza ha avuto un peso non secondario. A partire dalla teorizzazione della dittatura del proletariato passando attraverso le esperienze storiche del massimalismo e del sindacalismo rivoluzionario giungendo infine, nonostante significativi salti e discontinuità, alle parole d'ordine della sinistra extraparlamentare, del marxismo-leninismo e ancor più del terrorismo antisistema degli anni Settanta («questo Stato non si trasforma, si abbatte») è difficile non convenire sul peso esercitato dalla violenza nella cultura politica della sinistra o di buona parte di essa. Proprio su questo punto, e non a caso proprio negli anni Settanta si era aperta una significativa controversia all'interno del Pci, sollecitato, non da ultimo, da un intervento di Rossana Rossanda, che dalle pagine de «il Manifesto» (28 marzo 1978) sosteneva l'appartenenza culturale del terrorismo antisistema alla sinistra "storica".
D'altro canto la violenza ha connotato anche, benché sicuramente non in maniera esclusiva e costante, la prassi d'azione della classe dirigente dello Stato italiano, dall'unità alla Repubblica, sia nella gestione ordinaria dell'ordine pubblico che nell'intervento straordinario in situazioni di particolare conflittualità (espressa da movimenti di protesta o manifestazioni di piazza). Non è in questa sede necessario tracciare le linee di continuità che vanno, grosso modo, dalla "crisi di fine secolo" al "biennio rosso" e che qualificano ampiamente l'intera esperienza fascista - dall'ascesa all'apoteosi fino al declino del regime. E' sufficiente concentrare l'attenzione sul periodo repubblicano per constatare con quale tenacia e con quale drammaticità la violenza abbia continuato per certi versi a far parte della cultura politica delle classi dirigenti, quasi si trattasse di un elemento, un fattore, o meglio, un "rimedio" imprescindibile nella gestione della conflittualità sociale e dei conflitti del lavoro in particolare. Rispetto a quest'ultimi, è noto che soprattutto gli anni Cinquanta sono stati segnati non solo da una imponente ondata di "repressione padronale" impostata più sulla discriminazione e la marginalizzazione che sul ricorso alla violenza manifesta, ma anche e in misura forse ancora più traumatizzante da violenti interventi repressivi dello Stato attraverso le sue istituzioni preposte al mantenimento dell'ordine pubblico. A questo proposito si ritiene che gli eccidi di Modena nel gennaio 1950 o, ancora, per citare solo gli eventi più clamorosi, quelli di Reggio Emilia nel luglio 1960 abbiano avuto un impatto letteralmente traumatizzante per la cultura politica del paese, non solo per il fatto di sancire materialmente l'appartenenza della violenza alla prassi politica della classe dirigente, ma anche e soprattutto perché attraverso eventi di questo genere lo Stato italiano finiva per riproporsi ancora una volta nelle vesti di Stato autoritario e repressivo, avverso ai suoi stessi cittadini. In questo modo si finiva insomma per confermare e rafforzare quell'immagine di Stato nemico che, come si è accennato nel paragrafo precedente, continuava ad animare sentimenti e percezioni della realtà di non marginali componenti sociali ancora nell'Italia repubblicana degli anni Settanta.
Sul finire degli anni Sessanta e in misura maggiore nel decennio successivo tali sentimenti non potevano che essere del tutto improbabili se confrontati con il diffondersi della sensazione che fosse in atto un passaggio ad un uso più sottile e mascherato della repressione da parte della classe dirigente o di alcune sue
componenti. La "strategia della tensione" e gli eventi inaugurati con "la strage di Stato" del dicembre 1969 furono infatti interpretati dalla sinistra e da grande parte dell'opinione pubblica come le manifestazioni concrete del ricorso a nuovi strumenti repressivi finalizzati a sostituire o per lo meno a dare man forte agli interventi diretti sulle piazze. A questo proposito è sicuramente azzardato, oltre che storicamente inesatto, sostenere che Piazza Fontana si ponga all'origine - in quanto fattore causale ed esplicativo - della lotta armata sovversiva degli anni Settanta, ma è d'altro canto opportuno sottolineare la rilevanza della "strategia della tensione" nell'alimentare tutti quei discorsi che ponevano in discussione la legittimità dello Stato - di uno Stato che, è importante tenere sempre presente, era identificato in toto con il governo democristiano - e giungevano a metterne in discussione anche il diritto ad esercitare il monopolio della violenza. Da qui alla conclusione che se lo Stato impiegava sistematicamente la violenza, era con la violenza che bisognava combatterlo per smascherarne appieno la vera natura, negli anni Settanta il passo era estremamente breve. Fu infatti nel particolare contesto storico di cui si è trattato che si incrinarono definitivamente alcuni principi fondativi della vita sociale organizzata, nel senso che le forze che più radicalmente si erano sollevate contro lo Stato - il terrorismo - avocavano a sé anche il diritto a far ricorso all'uso della violenza. La sfida lanciata allo Stato si giocava insomma anche su questo piano.
Il terrorismo pertanto turbò sicuramente e profondamente la società italiana senza tuttavia sconvolgerla nelle sue fondamenta, poiché questa era in un certo senso avvezza a forme estremamente dure e anche violente di conflittualità. A questo riguardo non si possono inoltre dimenticare anche gli effetti profondi indotti dalla oramai secolare presenza della criminalità organizzata soprattutto sul piano dei quadri mentali e culturali della popolazione italiana. E' significativo che solo nella seconda metà del decennio, quando cioè la violenza politica aveva raggiunto una dimensione che andava ben al di là della lotta armata organizzata per assurgere a strumento di uso quasi comune nella gestione della conflittualità sociale, iniziarono a registrarsi una presa di coscienza collettiva della novità e della gravità della situazione e, di conseguenza, anche forme di reazione più nette e determinate ad affrontare la situazione in vista di un suo superamento.


Conclusioni: i funerali


L'epilogo che pose termine alla drammatica vicenda di Aldo Moro stimola alcune riflessioni utili a concludere il tipo di analisi sviluppata in questo saggio. Come noto, il sequestro di Moro si concluse il 9 maggio 1978 con l'uccisione dell'ostaggio e il ritrovamento del suo cadavere in via Caetani a Roma, dopo 55 giorni in cui dietro la «splendida facciata della fermezza»la gestione della crisi aveva rivelato molte delle debolezze e delle non sempre involontarie inefficienze degli organi dello Stato. Ciò che è interessante notare ai fini dell'analisi qui sviluppata riguarda gli sviluppi immediatamente successivi all'assassinio e al ritrovamento del cadavere, ossia il duplice funerale di Aldo Moro. Come espressamente richiesto dallo stesso Moro nella sua ultima lettera e con il consenso pieno della famiglia, i funerali furono celebrati in maniera esclusivamente privata. Da parte sua lo Stato non poteva però rinunciare a una forma anche anomala di celebrazioni, così che a un paio di giorni dal funerale privato la cerimonia ufficiale, quella che avrebbe dovuto e potuto essere un funerale di Stato, si svolse sì in presenza di «pressoché tutti i notabili della repubblica», ma in assenza del «corpo e della famiglia» di Moro. Quella che avrebbe dovuto insomma essere la massima celebrazione dello statista assassinato dai "nemici dello Stato" si risolse così in un «freddo cerimoniale» poiché il «paese in quell'immensa e nuda basilica, non c'era. Il popolo, con le sue passioni e la sua spontaneità, era assente, così come assenti erano la vedova e i figli dello scomparso. Protagonista di quella messa funebre era soltanto l'Istituzione». La funzione si tenne peraltro, come ha sottolineato Guido Crainz, «in zona extraterritoriale e vaticana» (nella Basilica di S. Giovanni in Laterano) quasi a sottolineare anche spazialmente il vuoto in cui lo Stato pareva in quei giorni trovarsi sospeso . Alla luce di tali eventi si può allora concludere che il sacrificio della persona e della vita di Aldo Moro in nome della ragione di Stato, o meglio, della sua salvaguardia, della coesione e della "solidarietà" nazionale contro i nemici delle istituzioni avesse sortito i risultati sperati? E' sicuramente difficile rispondere affermativamente a questa (retorica) domanda. Se da un canto si deve riconoscere che lo Stato riuscì a non soccombere di fronte all'attacco sferrato dal terrorismo, dall'altro non si può tuttavia sostenere che esso ne uscì da vero vincitore. Questo perché neppure il sacrificio di Moro era riuscito a catalizzare attorno ad esso un incondizionato sentimento di solidarietà e consenso. La comprensibile reazione della stessa famiglia di Moro al momento dei funerali è emblematica di quell'incolmabile scollamento che continuava a travagliare i rapporti tra la società italiana e le sue istituzioni. Se solidarietà e consenso vi furono, come effettivamente vi furono, essi riguardavano piuttosto uno Stato concepito più in termini astratti o centralistico-burocratici che non come fulcro dell'organizzazione della vita collettiva e dunque referente positivo di senso di appartenenza e identificazione. Ciò che riuscì a prendere forma nelle settimane del sequestro Moro è stato definito dal sociologo Luciano Gallino una sorta di "consenso istituzionale", ossia un consenso «specificamente diretto verso lo stato e le istituzioni del sistema politico e giuridico in cui esso si concreta» che pertanto si differenzia e in parte contrappone ad un consenso di tipo attivo, implicante cioè anche una forma di identificazione.
Nel maggio 1978 pareva insomma che lo Stato repubblicano stesse toccando il suo minimo storico in quanto a credibilità, rispettabilità e fiducia o, una parola sola, legittimazione. Di fronte allo sgomento, all'amarezza e al senso di sconfitta che il lungo braccio di ferro tra BR e Stato aveva finito per infondere nell'intero paese, si sarebbe fortemente tentati a concludere questo saggio abbandonandoci a malinconici o risentiti pensieri sul "paese mancato". E le ragioni non mancherebbero certo! Non a caso i cahiers de doléances della storia unitaria italiana sono di gran lunga superiori per quantità a tutta la produzione "scientifica" o comunque interessata alla comprensione dei complessi problemi di cui il Bel Paese stenta tanto a liberarsi. Non è per mero spirito polemico nei confronti di chi preferisce insistere a coltivare con meticolosa passione quella che si può definire una vera e propria identità in negativo della collettività nazionale italiana se si preferisce invece concludere con un'osservazione atta a porre l'accento su aspetti tendenzialmente trascurati dalla storiografia italiana sugli anni Settanta. Ciò che si desidera evidenziare è che nonostante le profonde lacerazioni che in quel periodo attraversavano la società italiana, nonostante il nichilismo esistenziale profuso dagli agguerriti nemici dello Stato, nonostante le condizioni di "spappolamento" in cui lo Stato italiano pareva versare, tanto che sempre meno si contavano coloro che erano pronti a mobilitarsi in sua difesa... nonostante insomma la gravità dei problemi che turbavano la vita del paese in quegli anni, vi fu tuttavia una società civile che reagì e che in definitiva contribuì in maniera decisiva, col proprio "stoicismo" a reggere agli scossoni che fecero invece fortemente vacillare le istituzioni dello Stato. La società civile italiana mostrò, certo non compattamente ma comunque in alcuni suoi vasti e importanti settori, un tipo di reazione che si potrebbe sintetizzare in una forma di invulnerabilità e per certi versi anche di fiducia nelle capacità di tenuta se non delle istituzioni dello Stato almeno di sé , del proprio essere, delle proprie attività, dei propri interessi. Certo, i confini tra atteggiamenti di salda e consapevole invulnerabilità da un canto e di cinica indifferenza o qualunquismo dall'altro erano estremamente fluidi, di questo ci hanno avvertiti diversi osservatori del tempo . Ciò non impedisce tuttavia di riscontrare anche un apprezzabile grado di maturazione politica in vasti settori della società italiana che, paradossalmente, proprio in virtù del basso grado di
identificazione con lo Stato e le sue istituzioni non si sentì immediatamente minacciata nella propria esistenza. L'aspetto più interessante dello scenario che andò profilandosi in Italia nella seconda metà degli anni Settanta è che continuando "impassibilmente" a vivere, agire e operare senza entrare nella sindrome da stato di emergenza, non lasciandosi cioè paralizzare dallo scontro in atto, la società italiana riuscì a garantire a se stessa quel minimo di risorse necessarie per far sì che il paese non soccombesse definitivamente in una condizione di sfascio totale.
Con ciò non si intende negare né sminuire l'impegno e gli sforzi verso un'uscita dalla crisi che in misura e tempi diversi furono indubbiamente sostenuti anche da parte dei partiti e delle istituzioni. Sotto questo profilo un contributo di enorme importanza deve essere riconosciuto in primo luogo al Pci. Al di là di qualsiasi giudizio politico che se ne voglia dare (ciò che tuttavia non rientra minimamente negli interessi di questo saggio) deve essere riconosciuto che con la sua incondizionata presa di posizione a favore dello Stato repubblicano e delle sue istituzioni democratiche , il Pci riuscì a convogliare (si tengano presente i risultati delle elezioni politiche del 1976!) vasti settori di quelle che allora venivano chiamate le "masse lavoratrici" sui binari di un tipo di discorso che per antonomasia potremmo definire "pro-sistema", un discorso cioè che in definitiva puntava all'ambizioso progetto di un allargamento della base del consenso (e dunque della legittimazione) per via se non di un'alternanza delle forze di governo per lo meno di un cambiamento delle sue forme e dei suoi principi ispiratori.
Come noto il progetto fallì e la svolta non vi fu. A sfavore del progetto politico del Pci agì probabilmente un errore di calcolo sui tempi, nel senso che la conversione pro-sistema del partito si compì troppo tardivamente, quando orami gli squilibri e i conflitti sociali avevano raggiunto un livello estremamente difficile da gestire se non all'interno di una solida coalizione di governo tra tutte le principali forze politiche, unite tanto negli obiettivi che nei mezzi cui ricorrere nel loro perseguimento. Ma uno sviluppo di questo genere nell'Italia di quegli anni non avrebbe potuto in alcun modo verificarsi, poiché completamente assenti erano le premesse ad esso necessarie (ossia una salda base di consenso rispetto all'ordine politico-istituzionale esistente!). Bisogna inoltre anche considerare che con la brutale eliminazione di Aldo Moro era venuta meno una controparte fondamentale per il progetto politico del Pci. In tal senso si può certamente concludere che nell'Italia degli anni Settanta il terrorismo antisistema sortì degli effetti sostanzialmente opposti agli obiettivi proclamati. La dichiarazione di guerra allo Stato e il conseguente clima di estrema instabilità politica e sociale che il terrorismo si impegnò ad infondere, contribuirono certamente ad alimentare l'immagine dello Stato nemico e una percezione della realtà come se il paese si trovasse alla vigilia di una rivoluzione o di una guerra civile. Ma le reazioni dello Stato e soprattutto della società che, come si è cercato di illustrare, non colse la sfida e non si lasciò paralizzare dall'aut aut "con o contro lo Stato", riuscirono a neutralizzare il discorso portato avanti dal terrorismo attraverso il rafforzamento di quello che è stato definito il "consenso istituzionale" verso lo Stato. Non si può certo affermare che questo rappresentasse un risultato pienamente soddisfacente per la classe politica italiana, ma andava comunque considerato un passo importante nel lungo e difficile processo di ampliamento e consolidamento della base di legittimazione dello Stato all'interno della sempre più complessa società italiana.




Alessio91